I disturbi d’ansia e la terapia cognitivo-comportamentale

L’ansia è definita nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) come “sensazione di nervosismo, tensione o panico in risposta a differenti situazioni; frequente preoccupazione per gli effetti negativi delle passate esperienze spiacevoli e le eventualità negative future; sensazioni di timore e apprensione in situazioni di incertezza, prospettando il peggio”. I disturbi d’ansia sono tra disturbi psicologici più diffusi nella popolazione (Kessler et al., 2005) e possono determinare una riduzione sostanziale della qualità della vita e del benessere fisico e psicologico.

Tuttavia l’ansia e la paura non rappresentano sempre dei meccanismi patologici, ma diventano tali nel momento in cui l’intensità e la frequenza degli stessi va ad intaccare il funzionamento e il benessere della persona. Infatti, l’ansia e la paura nascono come meccanismi adattivi, che consentono all’organismo di prepararsi all’azione in caso di pericolo.

Si è soliti distinguere due tipi di ansia (Spielberger et al., 2005):

  • L’ ansia di stato che rappresenta una reazione transitoria alla percezione di un pericolo imminente, reale o immaginario, che determina uno stato di tensione e apprensione.
  • L’ansia di tratto che, invece, indica una caratteristica stabile della persona, tipica di quelle persone che mostrano una tendenza a rispondere con l’elevati livelli di ansia alle diverse situazioni che percepisce come minacciose.

Nonché, nonostante la somiglianza a livello di sensazioni corporee, a livello teorico si è soliti distinguere la paura, che segnala un pericolo presente e specifico e ci prepara ad affrontarlo, dall’ansia, che riguarda minacce meno definite ed è rivolta prevalentemente al futuro, all’eventualità che la minaccia si realizzi, alla possibilità che non si raggiungano importanti obiettivi personali. Entrambi i concetti fanno riferimento a diverse manifestazioni a livello biologico:

  • aumenta la frequenza respiratoria, quella cardiaca e la pressione arteriosa;
  • il sangue è dirottato verso i grossi muscoli degli arti che si tendono, preparandosi all’azione, e ne affluisce quindi meno alla testa (riducendo la funzionalità del sistema cognitivo) e agli organi interni;
  • la digestione rallenta (si avverte un “peso” o un “nodo” allo stomaco) e la bocca diventa secca;
  • aumenta il rilascio di glucosio e di acidi grassi, per soddisfare le maggiori richieste energetiche dell’organismo;
  • la sudorazione si fa abbondante, per smaltire il surriscaldamento dovuto all’attività muscolare;
  • aumenta la coagulazione, per ridurre la perdita di sangue in caso di ferite, e diminuisce la risposta immunitaria;
  • l’attenzione e l’attività cognitiva si concentrano sugli stimoli minacciosi.

Per ciò che concerne l’ansia dato che essa è rivolta al futuro, in genere verso situazioni non modificabili. Il provare ansia non riduce la possibilità che essi si verifichino, e, anche quando l’ansia può essere utile per predisporre rimedi ai pericoli temuti, la componente di intensa attivazione somatica può intaccare la capacità di ragionamento e di problem-solving.

Il trattamento dei disturbi d’ansia

Nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale (CBT), in genere dopo un’importante fase di diagnosi e assessment, si selezionano i protocolli e i programmi trattamenti più adeguati alle particolari esigenze del paziente.

Interventi psicoeducativi

Il primo passo nel trattamento dei disturbi d’ansia, secondo il modello della CBT, riguarda gli interventi psicoeducativi, che consistono nel fornire al paziente informazioni relative al disturbo di cui soffre, ai meccanismi che lo mantengono e sui diversi trattamenti. Ciò allo scopo di aiutare il paziente a comprendere i disturbi/problemi e per sviluppare, quindi, la motivazione a impegnarsi nel trattamento. Inoltre, in questa fase saranno individuati gli obiettivi del trattamento e verranno analizzate le aspettative del paziente su come si svolgerà la terapia e quali risultati potrà raggiungere attraverso la stessa.

Un primo importante risultato di questo tipo di intervento è la “normalizzazione” delle esperienze vissute. Infatti, spesso i pazienti ritengono che il loro disturbo sia molto grave, peculiare e raro. Per questo motivo fanno molta difficoltà a parlare delle loro esperienze, nella convinzione di non poter essere capiti, e talvolta nemmeno creduti.

Un altro importante aspetto riguarda l’informare il paziente del ruolo dell’interpretazione cognitiva degli eventi ambientali nel determinare la risposta emozionale e il comportamento. Infatti, il presupposto della terapia cognitivo-comportamentale riguarda il primato del cognitivo sull’emotivo. Secondo tale modello, è sempre l’interpretazione cognitiva degli eventi a determinare le risposte emotive. Nel nostro caso, la reazione ansiosa si attiva nel momento in cui uno stimolo, persona o situazione sono interpretati come minacciosi.

Un importante settore da indagare riguarda il ruolo delle risposte di fuga e di evitamento nel mantenere il disturbo o il problema relativo all’ansia. Infatti, sebbene tali comportamenti siano immediatamente seguiti dalla riduzione dell’ansia e del disagio (e dunque rinforzate), nel tempo questi determinano limitazioni nel funzionamento poiché diventano le modalità prevalenti per gestire le emozioni sgradevoli.

Le tecniche di esposizione

Sicuramente, il trattamento più noto nell’ambito della CBT, sono le tecniche di esposizione. Come lascia intendere il nome, esse consistono nel mettere il paziente di fronte a stimoli e situazioni (innocui o poco pericolosi) che determinano in lui elevati livelli di paura e di ansia.

Questa tecnica può avvenire in vivo, in immaginazione oppure utilizzando foto, filmati e altri materiali o, più recentemente, apparecchiature di realtà virtuale, e viene continuata e ripetuta finché gli stessi stimoli non evocano più paura; in molti casi, è svolta, o almeno iniziata, con la presenza e la guida dello psicologo, ma può essere messa in pratica prevalentemente o esclusivamente come “compito per casa”, se necessario con il supporto di un familiare o di un amico.

L’esposizione graduale si propone di “rompere” l’associazione tra situazione temuta e risposta d’ansia e di far apprendere comportamenti di fronteggiamento e di gestione della stessa, alternativi all’evitamento e alla fuga. In genere prima si costruisce una gerarchia delle situazioni ansiogene, e successivamente si realizza, passo per passo, l’esposizione alle stesse situazioni. Le indicazioni per l’esposizione riguardano principalmente il fatto di “calarsi” nella situazione, mettendo da parte tutti i comportamenti di evitamento, e di affrontarla in modo efficace. L’esposizione attiva dei processi di abituazione allo stimolo, che determinano una progressiva riduzione delle reazioni ansiose di fronte a stimoli dello stesso tipo che si ripetono in modo regolare o persistono nel tempo; di conseguenza, dopo un iniziale aumento la paura e i sintomi ansiosi raggiungono un plateau, per poi calare progressivamente nel corso dell’esposizione. La persona non viene invitata a rilassarsi ad attendere che la risposta d’ansia si esaurisca. Questo esercizio, praticandolo nel tempo, e passando progressivamente a situazioni che evocano un’ansia di maggior intensità, dovrebbe garantire l’estinzione del condizionamento tra situazione temuta e risposta ansiosa. Tale tecnica, quindi, si rivela utile nel trattamento di diversi tipi di fobie.

Una strategia utilizzata nell’ambito degli attacchi di panico è l’esposizione enterocettiva che consiste nel far familiarizzare il paziente con le sensazioni interne e alle reazioni psicofisiologiche tipiche delle reazioni acute dell’ansia. Questa tecnica si basa sul presupposto teorico secondo cui l’attacco di panico è causato da interpretazione catastrofizzante dei propri sintomi corporei (come la tachicardia) che determina un aumento della risposta ansiosa. A sua volta, tale interpretazione determina un incremento dei sintomi corporei, peggiorando la situazione attraverso un circolo vizioso. L’obiettivo dell’esposizione enterocettiva è, quindi, far comprendere al paziente che quelle sensazioni corporee non lo porteranno a morire o a svenire, nonché di abituarlo a tali stimoli. Quindi, si ricostruiscono scrupolosamente la successione dei sintomi psicofisiologici e il loro gradiente ansiogeno, e successivamente si espone il paziente, attraverso l’induzione (ad esempio, impegnandolo in un esercizio fisico o facendogli bere del caffè forte), ai diversi passi fino al momento in cui la sensazione interna e i sintomi da essa scatenati si estinguono.

Un’altra tecnica simile all’esposizione, ma che svolge un compito differente è rappresentata dall’esperimento comportamentale. Esso consiste nell’esporre un paziente a una situazione per mettere alla prova, e modificare, alcune sue convinzioni disfunzionali come si può fare, per esempio, nell’ambito del disturbo d’ansia sociale. Si può invitare il paziente ad affermare la propria opinione su un determinato argomento quando è con gli amici, per mostrargli come non necessariamente la sua affermazione sarà criticata dagli stessi. Dunque, in questo esercizio si identifica prima la convinzione disfunzionale, si valuta il grado di certezza del paziente rispetto alla stessa, dunque si mette alla prova nella situazione in vivo. Successivamente si andrà a valutare nuovamente il grado di certezza della stessa, e se la tecnica è stata efficace, il livello di convinzione dovrebbe essere diminuito.

Ristrutturazione cognitiva

Oltre all’aspetto del comportamento, la CBT si occupa anche dei processi e delle convinzioni del paziente che determinano l’attivazione di risposte d’ansia. Nello specifico, durante l’assessment, saranno valutate quelle convinzioni disadattive che portano il paziente a interpretare determinante situazioni, persone o sensazioni corporee in modo catastrofizzante. Come precedentemente accennato, infatti, secondo la CBT il disturbo emozionale deriva da un’interpretazione personale, distorta e disfunzionale degli eventi.

L’obiettivo della ristrutturazione cognitiva sarà quindi, quello di individuare gli errori cognitivi e i pensieri negativi automatici che causano disagio significativo del paziente, al fine di correggerli e promuovere un’interpretazione maggiormente adattiva.

I principali errori cognitivi analizzati in letteratura sono:

  1. Saltare alle conclusioni: cioè arrivare troppo in fretta a convinzioni ben definite senza possedere sufficienti informazioni e senza basarsi su dati obiettivi: “stasera non mi dedica attenzioni mia moglie”, senza possedere informazioni su come stia sua moglie in quel momento;
  2. Filtrare la realtà: concentrare l’attenzione sugli aspetti della realtà che confermano le proprie aspettative negative e tralasciarne altri più importanti;
  3. Pensare in bianco e nero, senza vie di mezzo o sfumature (“o il mondo è completamente accogliente e sicuro oppure è pericoloso e ostile”);
  4. Generalizzare eccessivamente: adattare conclusioni derivate da singoli fatti a un’ampia gamma di situazioni (lo si evidenzia dall’uso di termini come “mai”, “sempre”, “nessuno”, “tutti”);
  5. Leggere la mente: dare per scontato cosa pensano gli altri, generalmente in termini negativi, senza chiederlo a loro;
  6. Personalizzare: interpretare gli eventi in relazione alla propria persona in mancanza di ragioni per farlo, ritenersi l’unico responsabile di fatti negativi o delle reazioni degli altri;
  7. Giudicare in base alle emozioni: ritenere che le emozioni provate riflettano esattamente i fatti (“l’ansia sta crescendo, la situazione sta quindi diventando troppo difficile”);
  8. Catastrofizzare: prestare attenzione solo alle possibili conseguenze negative di un evento e sopravvalutare la probabilità che queste si verifichino;
  9. Fare l’oracolo: credere di poter predire con certezza il futuro e, allo stesso tempo, dare eccessiva importanza al passato (“anche questa volta, come tutte le altre, andrà male, è troppo tardi per cambiare”).

Alla base degli errori cognitivi e dei pensieri negativi automatici, si può rilevare la presenza di quelli che in ambito cognitivo sono noti come schemi di base. Si tratta di convinzioni e assunzioni, che valutano il rapporto tra sé e specifici eventi esterni e sono espresse da proposizioni del tipo “se-allora” (“se mostro segni d’ansia, tutti se ne accorgeranno e penseranno che sono un incapace”, “se ho sintomi fisici inspiegabili, allora ho una malattia particolarmente grave”), da regole imperative specificate da espressioni come “devo” e da convinzioni compensatorie che riguardano strategie ritenute utili per rispondere alle altre convinzioni di base.

Esistono, quindi, alcune convinzioni disfunzionali comuni ai pazienti che soffrono di disturbi d’ansia:

  • paura sproporzionata del danno e catastrofizzazione, che portano il paziente a prevedere un insieme di conseguenze, tutte negative, e a considerare il pericolo e il danno come inevitabili;
  • timore dell’errore e perfezionismo patologico, con la tendenza a considerare i possibili errori del tutto inaccettabili e portatori di conseguenze disastrose;
  • intolleranza dell’incertezza;
  • valutazione negativa di sé, con attribuzione a sé, alle proprie incapacità prestazionali e alla mancanza di controllo emotivo, degli esiti negativi delle azioni;
  • necessità di controllo della realtà, interna ed esterna, che induce alla ricerca di certezze assolute, nell’illusione di poter così prevenire il verificarsi di qualsiasi evento negativo.

Gli obiettivi della ristrutturazione cognitiva, quindi, sono:

  • riconoscere le connessioni tra cognizioni, emozioni, comportamenti;
  • identificare i pensieri disfunzionali e i Pensieri automatici negativi;
  • riconoscere gli errori cognitivi;
  • esaminare l’evidenza pro e contro il pensiero distorto/disfunzionale;
  • sostituire alle cognizioni ansiogene interpretazioni orientate più realisticamente e più funzionali;
  • individuare, discutere e modificare gli schemi di base ansiogeni;
  • apprendere ad identificare autonomamente, anche dopo il termine del trattamento, e a modificare le credenze disfunzionali che predispongono a distorcere l’interpretazione delle esperienze.

Innanzitutto, è necessario fornire informazioni corrette e complete sul disturbo, al fine di aiutare il paziente a cambiare le interpretazioni catastrofizzanti che ha maturato sullo stesso.

Successivamente per ogni convinzione disadattiva si propone un lavoro di ricerca delle prove a favore delle proprie convinzioni, aiutando il paziente a comprendere che gli elementi validi a sostegno della sua convinzione sono pochi e incerti, e già questo può contribuire ad attenuarla e/o a renderla meno rigida e assoluta. Tuttavia, quando le prove portate dal paziente sono, a suo giudizio, più ampie e solide è necessario mettere in luce gli errori cognitivi e, soprattutto, condurlo a individuare le prove a sfavore e a formulare le possibili interpretazioni alternative della stessa situazione/eventualità e i possibili giudizi più realistici e funzionali.

Per discutere le attese catastrofiche dei pazienti può essere utile rappresentare il loro grado di probabilità su grafici a torta. Una volta individuato il pensiero o il giudizio negativo, e stabilito il grado di certezza (da 0 a 100), si prendono in considerazione le possibili spiegazioni alternative e si valuta la probabilità delle stesse.

Prevenzione degli evitamenti emozionali

Le strategie di evitamento emozionale sono dei pensieri o comportamenti che il paziente utilizza per ridurre le emozioni negative evocate da una specifica situazione temuta e che gli impediscono, quindi, di sperimentare pienamente l’ansia e le emozioni associate, ostacolando la terapia di esposizione.

 Le modalità per ridurre l’attivazione emozionale possono consistere in evitamenti comportamentali “sottili”, come smettere completamente l’uso di caffè e di eccitanti da parte delle persone con disturbo di panico, interrompere il contatto oculare o cambiare argomento di conversazione nella Fobia sociale, programmare e preparare in ogni particolare una determinata situazione prima di affrontarla (in particolare da parte dei pazienti con Disturbo d’Ansia Generalizzata) o procrastinare sistematicamente gli impegni ansiogeni. Altre strategie di evitamento emozionale sono di tipo cognitivo come la distrazione, lo spostamento dell’attenzione, il passare mentalmente in rassegna liste o sequenze; nello stesso modo la preoccupazione patologica e la ruminazione favoriscono l’evitamento emozionale, perché spostano l’interesse dal presente al futuro (o, talvolta, al passato).Un terzo tipo di strategie comprende i comportamenti di sicurezza, come portare in tasca un flacone di ansiolitico, farsi accompagnare da una persona “affidabile” o tenere un oggetto portafortuna.

E’ importante aiutare il paziente a mettere da parte questo tipo di comportamenti, in quanto il loro uso determina una riduzione di efficacia del trattamento di esposizione.

Rilassamento muscolare progressivo e Mindfulness

In aggiunta a questi trattamenti “standard“, in diversi casi si invita al paziente ad adottare tecniche di rilassamento, tra i quali il rilassamento muscolare progressivo o la meditazione Mindfulness.

Il rilassamento progressivo fu ideato da Edmund Jacobson e modificato, successivamente, Bernstein & Borkovec (1976). Tale tecnica si compone di una sequenza di contrazioni (indurre volontariamente forza nel muscolo) e decontrazioni (interrompere la tensione volontaria) di specifici gruppi muscolari. L’operatore chiede di svolgere diversi esercizi da ripetere due volte. È richiesto di irrigidire, mantenere la tensione e, in seguito, rilassare diversi gruppi di muscoli: mano e braccia destra e sinistra; dita del piede e ginocchio destro e sinistro; glutei; pancia e addome; spalle; collo; mascelle; zona degli occhi; fronte.

Su YouTube è possibile trovare video attraverso cui è possibile sperimentare tale tecnica su sé stessi, ad esempio, questo.

La meditazione mindfulness, non è esattamente un esercizio di rilassamento, ma viene considerata un utile metodo per contribuire al benessere globale della persona, favorire stili di vita più salutari e ridurre sintomi quali lo stress, l’ansia, la depressione e il dolore cronico. Essa è stata sviluppata a partire dagli anni ’70 da Jon Kabat-Zinn ed oggi è divenuta parte integrante delle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione. La mindfulness nasce con l’intento di proporre pratiche di meditazione per lo sviluppo delle potenzialità della mente e per la crescita personale tipiche delle tradizioni orientali. Anche per questo tipo di esercizi è possibile trovare diversi video su YouTube.

Questo tipo di tecnica sarà approfondita in futuro in un altro articolo, poiché esula dagli scopi del presente.

Riferimenti

Bernstein, D. A., & Borkovec, T. D. (1976). Progressive relaxation training: Manual for the helping professions. Champaign, IL: Research Press.

Kessler, R., Berglund, P., Demler, O., et al. (2005) Lifetime prevalence and age-of-onset distributions of DSM-IV disorders in the National Comorbidity Survey Replication. Archives of General Psychiatry, 62, 593-602.

Michielin, P. (2018) Interventi strutturati brevi in Psicologia clinica. Padova: UPSEL Domeneghini.

Spielberger, C. D., Gorsuch, R. L., & Lushene, R. E. (1970). Manual for the state-trait anxiety inventory. Palo Alto, CA: Consulting Psychologists Press.

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Pubblicato da Guglielmo Amato

Psicologo clinico

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